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Vari articoli del blog, approfondendo le applicazioni della realtà virtuale in ambito psicologico, hanno svelato le grandi capacità di questa tecnologia a supporto della terapia. 
Nella seguente pubblicazione, dopo aver inquadrato il complesso fenomeno degli hikikomori, proveremo ad analizzare le potenzialità della VR in relazione a questo disturbo. 

Può la realtà virtuale impattare positivamente sull’ansia sociale e diminuire i casi di autoisolamento?

 

INDICE DEI CONTENUTI

I. Chi sono gli hikikomori?

1. Etimologia e definizioni

     1.1 Definizione di Saito Tamaki

     1.2 Definizione del ministero della salute giapponese

2. Diffusione del fenomeno

     2.1 Breve identikit

     2.2 Localizzazione e numeri

3. Cause: cosa c’è prima dell’hikikomori?

4. Reclusione e rapporto con la tecnologia

5. Altri effetti: i sintomi psicologici

II. L’intervento della VR

1. Terapia tradizionale

     1.1 Supporto famigliare

     1.2 Supporto specialistico

     1.3 Supporto comunitario

2. VR e innovazione

     2.1 Terapia

      2.1.1 Due parole in più sugli avatar

     2.2 Formazione

      2.2.1 Affrontare la paura

      2.2.1.1 Fobie nello specifico

      2.2.2 Imparare a comunicare

3. Hikikomori, VR e socialità

Fonti

I. Chi sono gli hikikomori?

Approfondimenti

II. L’intervento della VR

Approfondimenti

  

I. Chi sono gli hikikomori?

Gli hikikomori sono ragazzi che hanno volontariamente deciso di rinunciare alla società in favore di una reclusione domestica; l’unico mezzo da loro ammesso per interfacciarsi con il mondo esterno è quello tecnologico.

buio e tastiera

Vediamo in maniera più approfondita di che si tratta.

1. Etimologia e definizioni

Il termine “hikikomori” deriva dal giapponese ed è composto da due parti: la prima proviene dal verbo “hiki”, traducibile in “tirare indietro”, la seconda invece dal verbo “komoru”, che significa “ritirarsi”.

Questa parola viene utilizzata per descrivere tutti quei giovani che passano lunghi periodi di tempo confinati entro le mura della propria camera rifulgendo ogni tipo di relazione sociale che prevede un contatto, comunicando unicamente via web e trascorrendo le loro giornate fra internet e videogame/letture di ogni genere.

1.1 Definizione di Saito Tamaki

L’espressione hikikomori viene utilizzata per la prima volta nel 1985 da Tomita Fujiya. 

Lo psichiatra Saitō Tamaki la riprende nel 1998 scrivendo il primo libro sul fenomeno. Al suo interno propone un proto-identikit dell’hikikomori: il soggetto deve manifestare i sintomi fra i 18 e i 30 anni e trascorrere un periodo di isolamento di almeno 6 mesi per essere ritenuto tale.

La definizione offerta da Tamaki rappresenta un punto di svolta. È importante non solo perché permette di identificare gli affetti da questa patologia anti-sociale ma anche perché getta le basi per gli studi successivi.

1.2 Definizione del ministero della salute giapponese

Il ministero della salute giapponese afferma che gli hikikomori sono coloro 

“[…] che rifiutano di uscire dalla casa dei genitori, isolandosi nella propria stanza per periodi superiori ai sei mesi, con la possibilità che la permanenza in autoreclusione si prolunghi per un numero non breve di anni, in una condizione di stabile dipendenza economica dalla famiglia […] (U.  Mazzone, 2009)”.

La definizione formulata dal governo nipponico attinge chiaramente da quella originaria arricchendola.

2. Diffusione del fenomeno

Grazie agli studi condotti dal ’98 in poi sono emerse costanti che hanno permesso di inquadrare meglio il fenomeno degli hikikomori.

2.1 Breve identikit

Si è scoperto che, più frequentemente, ad essere colpiti da questo disturbo psicologico sono individui di sesso maschile, figli unici, appartenenti a famiglie di ceto medio-alto e nati da genitori entrambi laureati.

Trattandosi di un una dinamica complessa, è bene tenere a mente che una classificazione rigida si rivela inadeguata. 

Le caratteristiche appena messe in evidenza (anche grazie alle due definizioni di cui sopra), non costituiscono delle conditio sine qua non. Sono utili per informare i paesi, per fare in modo che il fenomeno venga riconosciuto e studiato, ma perdono significato nel momento in cui vengono utilizzate per distinguere i “veri” casi di autoreclusione da quelli che non lo sono. Un approccio di questo tipo è problematico perché eccessivamente semplicistico.

Il Giappone ha commesso questo errore rifacendosi in modo ferreo alla definizione del ministero della salute. A causa di ciò, la presenza di hikikomori è stata ritenuta ufficiale solo a partire dal 2013, una volta formalizzate le caratteristiche fondanti, e i soggetti coinvolti sono stati sottostimati.

Vari elementi ci dimostrano che quello degli hikikomori è un fenomeno dalle diverse sfumature.

In primis, seppur in numero inferiore (ma in crescita), sono stati riscontati casi di autoisolamento di sesso femminile, circa il 10% del totale.

In secondo luogo, la durata della reclusione è molto variabile, oscillando da alcuni mesi ad interi anni. Anche la fase vitale in cui il fenomeno si manifesta è molto soggettiva. La stragrande maggioranza dei casi si palesa durante l’adolescenza, in un periodo di transazione e di accentuate fragilità. Ciò nonostante, il disturbo può insorgere anche in giovani adulti (18-25 anni) e riguardare adulti veri e propri (25-60+ anni).

Marco Crepaldi, il fondatore di Hikikomori Italia, afferma inoltre che l’autoisolamento si cronicizza molto facilmente. Una volta presentatosi in tenera età, potrebbe estendersi potenzialmente a tutta la vita.

2.2 Localizzazione e numeri

Secondo le stime ufficiali, in Giappone gli hikikomori sarebbero più di un milione: 541.000 fra i 15 e 39 anni e addirittura 613.000 fra i 40 e i 64 (questa è la fascia ignorata nei sondaggi giapponesi pre 2017) (vedi “Gli isolati sociali over 40 in Giappone sono più di 600 mila”).

 

L’ampia presenza di autoreclusi ha portato inizialmente a credere che il fenomeno fosse relegato esclusivamente al paese del Sol Levante. La tesi era avvalorata anche da alcune caratteristiche della cultura nipponica: la totale dedizione al lavoro, l’incessante competizione e la presenza di ruoli famigliari codificati hanno rafforzato l’idea che ad essere colpito potesse essere solamente il Giappone, o comunque, che qui fossero presenti in misura maggiore i fattori determinanti per il proliferare di tale disturbo psicologico.

Gli studi hanno però dimostrano che l’isolamento dalla società interessa gli individui di una sfera ben più ampia di paesi: il numero di autoreclusi è in aumento in Oriente, in paesi come Corea e Cina, ma anche in Occidente, interessando Europa e Stati Uniti.

In Italia si è passati dai 50 casi ufficialmente riconosciuti nel 2012 ad una più recente stima di 100 mila effettuata dall’associazione Hikikomori Italia.

In definitiva, tralasciando l’elemento geografico implicitamente veicolato dall’espressione “hikikomori”, sarebbe forse più opportuno parlare di un disturbo da social withdrawal ogni qualvolta si ha a che fare con episodi di completa avversione alla socialità.

3. Cause: cosa c’è prima dell’hikikomori?

Gli studiosi sostengono che dietro all’autoisolamento si celi un sentimento intollerabile di inadeguatezza.

Le cause scatenanti sono molteplici:

  • Sociali: timidezza, insicurezza, scarse capacità relazionali e bassa autostima portano all’esclusione dal gruppo;
  • Scolastiche/lavorative: bullismo e competizione forzata possono causare il rigetto dell’ambiente scolastico/lavorativo. L’isolamento può costituire un rifugio anche da/in seguito al fallimento di esami importanti (scuola/università/lavoro) e licenziamento;
  • Individuali: problemi psicologici del soggetto;
  • Famigliari: giocano un ruolo determinante per l’insorgere del disturbo. Come anticipato, spesso l’hikikomori è maschio, figlio unico e appartiene ad una famiglia benestante. Il grado di istruzione di entrambi i genitori è elevato: il padre in molti casi ha un’occupazione di grande rilievo ed è assente poiché dedito unicamente al lavoro; la madre, pur avendo studiato, si occupa invece della famiglia, è iper-protettiva nei confronti del suo ragazzo e tende a volerne gestire la vita. Spesso la madre idealizza il padre nel parlare al figlio. Quest’ultimo (ancor più se primogenito) è caricato dell’onere di realizzarsi per poter mantenere la famiglia in futuro (Saito 1998).  

L’hikikomori risulta quindi depositario di aspettative che incarnano gli standard estetici e socio-culturali del paese e della famiglia di appartenenza. La pressione esercitata ha ripercussioni estremamente negative: il giovane, al posto di essere stimolato a raggiungere traguardi, viene schiacciato. Il confronto con l’esterno genera in lui un’ansia sociale che lo opprime, che lo rende prigioniero e mina il suo equilibrio fino alla caduta, fino alla chiusura.

L’avversione alla socialità potrebbe derivare da fallimenti educativi. Un ambiente famigliare in cui i genitori sono assenti e ignorano il figlio rende il ragazzo impreparato, incapace di reagire alle prove postegli dinnanzi dalla vita. È questione di tempo prima del crollo: al posto di continuare ad affermare la propria identità, il giovane si autoaccusa e decide di scappare nel virtuale.

L’avversione alla socialità, in alcuni casi particolari, potrebbe anche rappresentare un forma di protesta silenziosa (vedi “Le quattro tipologie di hikikomori”). 

4. Reclusione e rapporto con la tecnologia

Gli hikikomori si rifugiano nelle loro camere perché vogliono allontanarsi dalla società, perché hanno deciso in maniera cosciente e spontanea di non volerne più far parte. L’alienazione a cui ambiscono è estrema: il raggiungimento di uno stato di isolamento assoluto viene realizzato con la recisione di qualsiasi tipo di contatto fisico ed emotivo.

Così facendo, questi ragazzi si sottraggono al mondo: il ritiro casalingo comporta il non andar più a scuola, all’università o al lavoro e una pressoché totale assenza di relazioni. 

Loro obiettivo è non solo schivare quelle che potrebbero nascere ma anche le già esistenti: si distaccano dagli amici e, nei casi più gravi, dai loro stessi genitori. Alle volte, la chiusura è profonda al punto da evitare l’incrocio con gli sguardi altrui o la condivisione di alcuni spazi domestici. A tal proposito, possiamo citare nuovamente la definizione del ministero della salute giapponese. Essa termina affermando che questi giovani preferiscono 

“[…] pranzare e cenare nella propria stanza con un vassoio passato dal genitore attraverso la porta appena socchiusa e si recano in bagno con percorsi che, per tacita intesa familiare, vengono lasciati il più possibile non frequentati”.

La fuga dalla società si arresta nella tecnologia. Web, video-games, film e serie tv sono i componenti fondamentali del mondo ovattato in cui gli hikikomori si rifugiano. Solamente all’interno di questa realtà dagli angoli smussati essi riescono a provare un senso di sicurezza e conforto. Ciò avviene grazie alla totale assenza di discriminazione: la tecnologia viene apprezza perché caratterizzata da modalità d’approccio neutrali, più immediate e meno coinvolgenti rispetto a quelle previste dai rapporti vis à vis. In altre parole, i medium telematici vengono recepiti come una soluzione (o un’alternativa) alla vergogna.

Va infine sottolineato che, per un hikikomori, isolamento e staticità non sono sinonimi. Pur vivendo in una realtà lontana, per certi versi parallela rispetto a quella comune, i soggetti colpiti da questo disturbo non possono essere ritenuti immobili. Accade spesso che i ragazzi autoreclusi, occupando il loro tempo grazie a contenuti multimediali o libri, si focalizzino sui loro interessi e riescano a coltivare delle passioni (vedi “NEET, hikikomori e otaku: chi sono coloro che si autoescludono dalla società?”).

5. Altri effetti: i sintomi psicologici

La reclusione scaturita dall’ansia sociale, indubbiamente il sintomo principale (Saito, 1998), non è l’unico. Le giornate degli hikikomori sono infatti caratterizzate da una vera e propria inversione del ciclo sonno-veglia: sono attivi e connessi la notte mentre riposano di giorno (anche questo comportamento costituisce una forma di fuga dalla società). 

I soggetti che decidono di autorecludersi spesso soffrono in contemporanea di:

  • Fobia scolastica: sintomo molto comune che può essere interpretato come un campanello d’allarme da non sottovalutare. Può far presagire la volontà di recludersi del ragazzo;
  • Agorafobia: la paura dei luoghi pubblici e affollati può essere sia prodromo che conseguenza dell’autoisolamento;
  • Antropofobia/misantropia: la prima costituisce la paura della gente e dei contatti sociali, spesso sviluppata dopo aver trascorso un periodo di isolamento. La seconda indica invece un’atteggiamento di odio nei confronti del genere umano (vedi “Gli hikikomori sono misantropi?”); 
  • Automisofobia: paura di sporcarsi, connessa alla tendenza di non aver alcun tipo di contatto;
  • Disturbi psichici: schizofrenia e disordini da stress insorgono quando si rimane per un periodo troppo lungo di tempo all’interno della propria camera.

Infine, gli hikikomori convivono abitualmente con la negatività. Tristezza, rabbia, solitudine e pensieri di morte sono altri demoni contro cui devono combattere, nonché sentimenti alla base dell’aggressività che manifestano verso la famiglia e in particolare nei confronti della madre, ai loro occhi la fonte di tutti i problemi.

 

II. L’intervento della VR

La combinazione fra atteggiamento filo-tecnologico e volontà di isolarsi che contraddistingue gli hikikomori fa pensare che, molto probabilmente, più la realtà virtuale “si farà strada” nella vita dell’uomo, più sarà accolta “a braccia aperte” da tutti coloro che non vogliono continuare far parte della società.

Da una parte, la VR potrebbe apparire dannosa se relazionata a questo fenomeno psicologico: proiettando in realtà diverse dalla nostra, rischia di aumentare ancor più il livello di reclusione. Dall’altra, alcune caratteristiche e utilizzi che già si fanno di questa tecnologia lasciano intravedere del potenziale positivo.

Dopo un’analisi dell’attuale paradigma terapeutico esploreremo i benefit annessi all’impiego della realtà virtuale.

1. Terapia tradizionale

La psicoterapia (spesso affiancata da un trattamento psicofarmacologico) rappresenta il metodo più utilizzato per fronteggiare i problemi degli hikikomori.

Poiché il ragazzo in autoisolamento non cercherà quasi mai aiuto, il primo passo deve essere compiuto da una figura esterna.

1.1 Supporto famigliare

La prima ipotesi prevede l’intervento del genitore preoccupato per la situazione del figlio. 

Nel cercare di convincerlo ad uscire dalla propria camera per ricevere il supporto di uno specialista, il genitore è spesso aggressivo. Un comportamento di questo tipo è controproducente: genera violenti conflitti e fornisce agli autoisolati un’ulteriore conferma alle loro idee su famiglia/società.

L’hikikomori può reagire alle sollecitazioni genitoriali in due modi: rimbalzando tutti i tentativi sostenendo di non aver bisogno di aiuto, di star bene nella condizione in cui si trova, oppure (quando la pressione esercitata è particolarmente forte) recandosi effettivamente dallo psicoterapeuta, ma solo per fare un piacere agli altri e liberarsi di un peso.

Se la motivazione non proviene dal diretto interessato si tratta di un fallimento: il percorso affrontato con lo specialista non conduce a nessun risultato e non appena vi saranno i fattori idonei, vi sarà anche la ricaduta in una nuova chiusura.

In alcuni casi, la famiglia partecipa attivamente alla terapia dell’hikikomori con l’obiettivo di creare una dimensione di gruppo nella quale l’individuo si senta rassicurato.

1.2 Supporto specialistico

La seconda ipotesi prevede invece l’intervento dello psicoterapeuta. 

Spiniello e Quintavalle (2015) sostengono che, in tal caso, deve avvenire un’inversione del classico rapporto medico-paziente: non è più colui che deve essere aiutato a recarsi nello studio dello specialista ma quest’ultimo a doversi avvicinare (fisicamente ed emotivamente) in prima persona al soggetto bisognoso.

I due studiosi affermano che la terapia procede in modo graduale. L’obiettivo a breve termine non è sicuramente convertire l’hikikomori alla società; un simile risultato è plausibile solo dopo tempo. 

Nella fase iniziale, recandosi nella camera dell’autorecluso, lo psicologo deve piuttosto riuscire ad instaurare un rapporto. Il ragazzo deve assegnargli un ruolo sociale all’interno del mondo che si è creato. Se lo specialista riesce a farsi accettare, riesce a valicare il muro di solitudine eretto dall’hikikomori in precedenza. Il giovane potrebbe schiudersi abbastanza da rendere possibile un contatto che non sia virtuale

“[…] inizialmente facendo semplicemente una camminata, successivamente raggiungendo i negozi vicino casa e infine costruendo piccole relazioni sociali per poi lentamente reintegrarsi nella società”.

1.3 Supporto comunitario

Il metodo più efficace per combattere l’isolamento dell’hikikomori è la comunità.l'unione fa la forza

Quest’ultima modalità d’intervento prevede che vengano messi a disposizione del ragazzo ambienti ed attività “[…] usufruibili anche 24/24 per tutta la settimana in cui […] si sente libero e che permettono a lui di uscire […]”, in modo di fargli recuperare le capacità sociali perse (vedi “‘New Start’: l’associazione giapponese che aiuta gli hikikomori”).

In apposite strutture, ad esempio, si potrebbero 

“[…] organizzare sedute di discussione di gruppo (coordinate da un moderatore esperto), tornei con videogiochi online e offline, gite fuori porta, piccoli lavoretti part-time, laboratori creativi e attività formative di qualsiasi tipo (professionali e non)”.

L’obiettivo è quello di far sperimentare il nuovo, di porre di fronte a contingenze che richiedano un certo livello di modellazione ed adattamento. Il tutto avviene in un contesto che non deve essere individuale, che deve essere vissuto assieme ad altre persone (l’intervento famigliare citato poco fa si colloca in questo discorso). Così facendo, si cerca di sradicare l’autoisolato dalle sue abitudini, di interrompere la schematica routine nella quale ristagna perennemente. 

L’hikikomori è prigioniero della sicurezza data dalla comfort zone che ha costruito nella propria camera. Anche il semplice trovarsi in un posto diverso può giovargli. Poiché l’essere umano viene plasmato dall’ambiente (che modifica a sua volta), il ragazzo, misurandosi con fattori che lo costringono a reinventarsi, produrrà pensieri e strategie freschi, lontani dalla tossicità della sua “vecchia vita”.

La terapia comunitaria, essendo quella che richiede più coraggio e sforzo, può essere attuata solamente quando a sentire la necessità di cambiare è l’hikikomori stesso. Può venir presa in considerazione in seguito ad una prima apertura nei confronti dello psicoterapeuta, collocandosi nell’ottica della progressiva apertura verso l’esterno descritta prima.

2. VR e innovazione

L’adozione della realtà virtuale potrebbe rivoluzionare a 360 gradi le soluzioni terapeutiche a supporto degli hikikomori.

A beneficiare di questa tecnologia non sarebbero unicamente gli affetti dal disturbo ma anche gli specialisti che se ne occupano.

2.1 Terapia

L’avere a disposizione spazi virtuali che sostituiscono o affiancano quelli fisici rappresenta la principale novità introdotta dalla VR.

Una terapia realizzata grazie a questa tecnologia somiglierebbe molto a quella comunitaria: l’ambiente creato al computer avrebbe le stesse funzionalità dei centri citati in precedenza, ma ne aumenterebbe le potenzialità.

Ad esempio, fornire un luogo frequentabile perennemente sarebbe molto più semplice. Proporre attività di gruppo che enfatizzano ancor più l’elemento tecnologico stimolerebbe maggiormente l’interesse dei ragazzi autoreclusi e permetterebbe una più facile accettazione degli specialisti. Oppure ancora, si potrebbero realizzare appositi ambienti atti al combattere le fobie ed allenare la socialità.

Poiché la VR è in grado di immergere in mondi artificiali, in qualche modo non-reali, gli hikikomori si sentirebbero più a loro agio.

Sapendo di trovarsi in ambienti controllati, consapevoli che niente e nessuno può far loro del male, potrebbero sentirsi più sicuri e di conseguenza esprimersi con più naturalezza (senza timore) sia nel comunicare che nell’agire

2.1.1 Due parole in più sugli avatar

L’ansia sociale e il sentimento di inadeguatezza provato dagli affetti da questo disturbo potrebbero essere mitigati anche grazie all’impiego di avatar. L’utilizzo di rappresentazioni artificiali della propria persona potrebbe cambiare il modo di far percepire il proprio corpo/carattere tanto a sé stessi quanto agli altri. In questo modo, l’esigenza di rinchiudersi e nascondersi potrebbe essere ritenuta meno impellente, e seppur in forma virtuale, una forma di esposizione più intima verso l’esterno (rispetto a quella realizzata attraverso il web) sarebbe attuata.

De Luca e Chenivesse hanno affermano che l’utilizzo della VR in età adolescenziale supporta la formazione dell’individualità ed aiuta nel processo di crescita.

L’utilizzo di avatar attraverso i quali rappresentare in maniera più pertinente il proprio ego potrebbe offrire a giovani auto-isolati delle nuove possibilità espressive e operare una restaurazione emotiva lavorando sull’autostima.

2.2 Formazione

Numerosi studi/articoli affermano che quello dell’istruzione/formazione (educazione) è uno degli ambiti in cui la realtà virtuale si dimostra più incisiva.

L’immersione in scenari virtuali interattivi è in grado di generare un livello di coinvolgimento decisamente maggiore rispetto a quello che caratterizza i classici metodi utilizzati per imparare. L’apprendimento in VR è migliore perché più immediato (più veloce e naturale) e perché caratterizzato da un approccio learning by doing.

2.2.1 Affrontare la paura

Il trattamento delle fobie in realtà virtuale è reso possibile grazie alle capacità istruttive di questa tecnologia. L’idea è che gli hikikomori possano imparare a sopportare ciò che crea loro turbamento grazie a programmi in VR che attuino un’esposizione graduale. 

Il fronteggiare ripetutamente e a diversi gradi di intensità gli stimoli disagianti, infatti, genera abitudine. Tramite essa, gli autoreclusi dovrebbero, nella migliore delle ipotesi, smettere di essere spaventati, o, meno ottimisticamente, imparare a fronteggiare attivamente ciò che temono senza scappare.

Su questo assunto poggiano anche gli attuali metodi di trattamento delle fobie, contraddistinti però da evidenti limitazioni.

Ipotizzando di dover intraprendere un percorso di terapia per l’ansia, avremmo a disposizione due modalità di esposizione: in immaginazione, nella quale il soggetto, dovendo figurarsi mentalmente ciò che lo turba, gode di un maggior grado di sicurezza, e in vivo, in cui essendoci invece una concreta esposizione si riesce ad affrontare la fobia in modo tangibile. Se il vincolo della prima è rappresentato dalla potenziale carenza di fantasia dell’individuo, la seconda corre il rischio di sfociare nel pericoloso o nell’irrealizzabile: rispettivamente, alcuni stimoli da presentare ai pazienti potrebbero risultare non completamente controllabili dal terapeuta ed altri troppo difficili da attuare/procurare (per esempio la paura di volare).

L’esposizione in realtà virtuale (VRET) ingloba gli aspetti positivi degli approcci appena visti e fornisce soluzioni alle problematiche esposte. Lo specialista gode di un controllo maggiore, pressoché totale, sia dello stimolo che dell’ambiente virtuale. Mettendo a disposizione dei pazienti autentiche sandbox all’interno delle quali esercitarsi al controllo della paura, una terapia in realtà virtuale è più sicura. Gli scenari sviluppabili al computer, invece, sarebbero potenzialmente infiniti e dotati di un grado di adattabilità estremamente alto rispetto alla specifica situazione. 

Oltretutto, è stato dimostrato che la terapia in realtà virtuale viene accolta in più benevolmente dai pazienti: rispetto al 27% dei casi di abbandono che caratterizza la modalità in vivo, solo un 3% di coloro che intraprendono la VRET la rigettano (Garcia-Palcios 2007).

2.2.1.1 Fobie nello specifico

L’esposizione in realtà virtuale si è dimostrata efficace nel trattamento di alcuni disturbi che affliggono gli hikikomori.

Il primo è l’agorafobia. La paura degli spazi affollati viene combattuta collocando i pazienti in ambienti artificiali potenzialmente affollati come ad esempio ascensori, supermercati, piazze e panchine. I risultati raggiunti sono simili a quelli ottenibili tramite l’esposizione in vivo: è stato riscontrato un miglioramento rispetto a coloro che non avevano intrapreso un percorso terapeutico.

CLAUSER VR rappresenta un esempio di applicazione per la realtà virtuale sviluppata per aiutare gli affetti da claustrofobia/agorafobia. 

“Il paziente è immerso in uno scenario che alterna progressivamente uno spazio aperto senza delimitazione alcuna – il mare – ad uno spazio chiuso particolarmente ristretto e soffocante – una grotta”.

Un secondo disturbo trattabile grazie alla VRET è quello d’ansia sociale. Gli studiosi, che inizialmente si sono focalizzati specificamente sulla paura di parlare in pubblico, hanno ottenuto esiti terapeutici addirittura migliori rispetto a quelli dell’agorafobia. Dopo aver esposto un discorso di fronte ad un pubblico virtuale neutro o negativo, i pazienti hanno dimostrato un livello di ansia minore rispetto a coloro che avevano intrapreso la terapia di gruppo.

I risultati appena visti non riguardano tutti i casi di ansia sociale. Nei soggetti a cui viene diagnosticato un disturbo d’ansia sociale generalizzato, ad esempio, è stato riscontrato solamente un miglioramento rispetto a coloro che non intraprendono un percorso. Di nuovo, tale miglioramento è paragonabile a quello che si riscontra nei casi di esposizione in vivo.

Infine, il trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo rappresenta un campo promettente ma che necessita ulteriori indagini. Un esempio di terapia in VR di questo disagio consiste nell’immergere in una stanza sporca un soggetto che teme la contaminazione. È emerso che l’esposizione in realtà virtuale produce un’attivazione maggiore rispetto a quella generata in vivo; il “problema” è che ciò avviene solamente in 1 soggetto su 3.

Tralasciando per un attimo il discorso relativo alla pura efficacia, soffermandoci invece su quella relativa al fenomeno degli hikikomori, riusciamo a scorgere la vera utilità dell’esposizione in realtà virtuale. Anche se i risultati sono spesso assimilabili a quelli dati dall’esposizione in vivo, il vantaggio consiste consiste nella possibilità di avvicinarsi a giovani che potrebbero risultare contrari ad una terapia in vivo.

2.2.2 Imparare a comunicare

Terapeuti e psicologi, grazie ad appositi training, potrebbero sviluppare delle nuove competenze pratiche e relazionali.

Ad oggi, la più grande limitazione è rappresentata dal fatto che la “teoria” può essere applicata solo sul campo. Ciò implica la reale sussistenza dell’emergenza e una certa lentezza nell’imparare come rapportarsi al fenomeno. Capire quali sono i migliori modi per approcciarsi ed agire, ad esempio, è un qualcosa che si apprende solo dopo vari tentavi d’intervento susseguitisi nel tempo e potenzialmente falliti (o non riusciti al 100%).

La realtà virtuale, fornendo la possibilità di sviluppare percorsi di formazione tarati specificamente sulla dinamica indagata, potrebbe formare degli specialisti dotati di un set di abilità pratiche in grado di fare la differenza fin da subito quando si deve tentare di stabilire un contatto con l’hikikomori.

In virtù delle sue potenzialità immersivo-empatiche (vedi “Realtà virtuale ed effetti sull’empatia – PART I e PART II”)  la VR potrebbe risultare utile anche da un punto di vista comunicativo.

Da un lato, gli specialisti potrebbero comprendere ancora più profondamente il fenomeno e sviluppare una nuova sensibilità avendo vissuto in prima persona i disagi che affliggono gli autoreclusi. Dall’altro, avrebbero la possibilità di esplorare ed assimilare alcune passioni degli hikikomori: l’aver giocato ad un videogame o visto uno specifico film/serie manga, ad esempio, contribuirebbe ad avvicinare medico e paziente facilitando la condivisione e l’apertura.

Trovandosi spesso a stretto contatto con la realtà virtuale, inoltre, gli specialisti svilupperebbero una grande famigliarità con la tecnologia. Agli occhi degli hikikomori, questa potrebbe rappresentare un’ulteriore testimonianza del fatto che, dopotutto, i terapeuti non sono così diversi da loro.

In definitiva, la VR potrebbe operare sul piano relazionale (direttamente e indirettamente) contribuendo alla costruzione di un common ground. Grazie a questa tecnologia, specialisti ed autoreclusi avrebbero l’opportunità di  “trovarsi allo stesso livello”, di “parlare la stessa lingua”; l’assottigliamento delle differenze di ruolo possibilità un nuovo tipo di fiducia e anche una maggior possibilità di apertura.

3. Hikikomori, VR e socialità

È vero che una volta calato il visore sopra gli occhi, dopo essere stati catapultati all’interno di uno scenario virtuale, si viene alienati completamente dal mondo? In altre parole, l’esperienza simulata alla quale si sta partecipando preclude davvero ogni tipo di relazione con l’esterno o vi è la possibilità di interagire, magari di realizzare addirittura un nuovo tipo di socialità sfruttando proprio le potenzialità degli strumenti immersivi?

Come spesso accade di fronte al nuovo (e ancor più quando si parla di nuovo tecnologico) l’opinione pubblica si “spacca” in due: da una parte abbiamo i detrattori, coloro che, con eccessivo pessimismo, vedono nel VR un pericoloso archibugio che infarcisce ulteriormente la lista di tutte quelle periferiche che stanno gradualmente estraniando l’uomo rendendolo sempre più distaccato dalla realtà. 

In quest’ottica, si potrebbe ipotizzare che la realtà virtuale, più che un’opportunità, rappresenti per gli hikikomori uno strumento in grado di peggiorare la loro situazione. La VR favorirebbe la fuga dalla società aggiungendo un secondo layer  fra gli autoreclusi e il mondo. Sovrapponendosi al primo, alla camera fatta di web/videogames/manga…, gli strumenti immersivi aumenterebbero il livello di isolamento fino al raggiungimento di un nuovo stadio reclusivo.

Dall’altra troviamo invece i sostenitori, gli ottimisti, o comunque tutti coloro che non vivono la realtà virtuale come una tecnologia da temere. Secondo quest’altro punto di vista, si potrebbe affermare che la VR, può apparire dannosa a priori (e specialmente se relazionata a problematiche di auto-isolamento) solamente ad uno sguardo superficiale.

Sappiamo che uno dei pro della VR è la duttilità, caratteristica ad oggi messa in luce principalmente dalla vastità di scenari realizzabili. Vari indizi fanno pensare che quest’attributo, presto, sarà evidenziato anche dalla presenza di diverse modalità di fruizione del contenuto. 

Una già esistente e che vale la pena citare prevede un’immersione nel mondo virtuale “ibrida”: l’utilizzatore che indossa il caschetto non è isolato ma vive un’esperienza a cui partecipano anche persone esterne.

Un esempio semplice e immediato ha a che fare con Playstation VR: alcuni giochi permettono un’interazione mista nella quale vengono coinvolte anche persone senza visore, fisicamente all’esterno del contesto virtuale (e se all’interno solo grazie a elementi gestibili tramite controller). 

“Mentre si gioca con il caschetto compatibile con PS4 […] la scena visualizzata dall’utente viene trasmessa anche sullo schermo della TV.
In certi casi, come nell’ottimo PlayRoom VR, questo stratagemma serve per creare situazioni pensate per il multigiocatore competitivo o cooperativo, in cui chi osserva lo schermo può ad esempio indirizzare chi indossa il visore”.

Per gli hikikomori, modalità concettualmente simili sarebbero doppiamente vantaggiose. 

In primo luogo, un approccio basato sulla realtà virtuale sarebbe percepito positivamente dagli autoreclusi (nel 2021 alcuni ne staranno probabilmente già apprezzeranno i fiorenti sviluppi nel gaming) in virtù della loro confidenza con la tecnologia. In seconda battuta, si potrebbero coinvolgere famiglie/specialisti (o anche entrambi contemporaneamente) in ambienti collaborativi. In sostanza, ci si potrebbe avvicinare agli autoreclusi tenendo conto delle loro preferenze comunicative, usando i loro mezzi di espressione.

Infine, qualcuno si dimostra anche più ottimista della norma. Mark Zuckerberg ritiene che la realtà virtuale costituisca il futuro dei social network. I miliardi di dollari investiti da Facebook in questa tecnologia negli ultimi anni potrebbero essere la testimonianza della direzione sempre più social che questi prodotti imboccheranno.

Probabilmente, in un futuro non troppo lontano, gli hikikomori potrebbero riuscire a coltivare la socialità mancante nel mondo reale grazie quello virtuale, paradossalmente, proprio grazie all’alienazione.

 

Fonti

I. Chi sono gli hikikomori?

Loscalzo Y., Nannicini C., Giannini M. (2016), “Hikikomori: sindrome culturale internalizzante o ritiro volontario?” in rivistedigitali.erickson.it, Counseling, Volume 9, Numero 1, studi e ricerche;

Grimaudo D., 26/4/2017, “Social Withdrawal e Hikikomori: definizione e ipotesi d’intervento” in State of Mind;

Aguglia E., Signorelli M. S., Pollicino C., Arcidiacono E., & Petralia A. (2010), “Il fenomeno dell’hikikomori: Cultural bound o quadro psicopatologico emergente?” Giornale di Psicopatologia, 16, 157-164;

Crepaldi M., “Chi sono gli hikikomori?” in Hikikomori Italia;

Crepaldi M., 16/12/2017, “Come faccio a capire se sono un hikikomori?” in Hikikomori Italia;

Crepaldi M., 9/12/2017, “Qual è la causa dell’hikikomori?” in Hikikomori Italia.

Approfondimenti:

Crepaldi M., 30/3/2019, “Gli isolati sociali over 40 in Giappone sono più di 600 mila” in Hikikomori Italia;

Crepaldi M., 11/10/2017, “Le quattro tipologie di hikikomori: alternativo, reazionale, dimissionario e a crisalide” in Hikikomori Italia;

Trombini A., 13/2/2020, “NEET, hikikomori e otaku: chi sono coloro che si autoescludono dalla società?” in Stay Nerd;

Crepaldi M., 19/3/2020, “Gli hikikomori sono misantropi (odiano il genere umano)?” in Hikikomori Italia.

II. L’intervento della VR

Crepaldi M., 4/1/2017, “Come si aiuta chi non vuole essere aiutato?” in Hikikomori Italia;

Crepaldi M., “Come si aiuta un hikikomori? Riflessioni sull’importanza delle comunità” in Hikikomori Italia;

Miccoli M. R., 14/3/2019, “Hikikomori: la VR per accedere al loro mondo” in Idego;

CLAUSER VR in Idego;

De Luca, M., & Chenivesse, P. (2018), “Formations de l’idéal, Hikikomori et virtuel à l’adolescence. L’évolution Psychiatrique”, 83, 443-456;

Cavallaro M., 16/10/2017, “L’ esposizione in realtà virtuale nel trattamento dei disturbi d’ansia” in State of Mind;

Fossetti F., 15/11/2016,  “Realtà virtuale: fra socialità e alienazione” in Everyeye.it;

20/7/2018, “Social VR: la realtà virtuale applicata ai Social Media” in Quix;

Marchetti D., 7/10/2016, “Oltre i videogiochi, verso la socialità: così Zuckerberg delinea il futuro della realtà virtuale” in La Stampa.

Approfondimenti:

Crepaldi M., 11/5/2013, “‘New Start’: l’associazione giapponese che aiuta gli hikikomori” in Hikikomori Italia;

Comerci F., 1/3/2021, “Superare ansie e fobie attraverso la tecnologia VR” in WirtualCare;

Pasinetti U., 3/3/2021, “Realtà virtuale ed effetti sull’empatia – PART I” in WirtualCare;

Pasinetti U., 11/3/2021, “Realtà virtuale ed effetti sull’empatia – PART II” in WirtualCare.